ERA SOLO UN RAGAZZO (un estratto)

A mio padre:
le cose più importanti che so.
VI
Quando mio padre decise d’insegnarmi come scrivere correttamente la A
era solo un ragazzo
ma ci mise impegno, non tralasciò i più seri argomenti
anche se era un ragazzo
mio padre sviluppò un metodo talmente preciso e perfetto
che in una sola lezione, per quanto lunga
mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere sulla A
ed è la stessa A che tuttora scrivo
proprio come mi ha insegnato mio padre.
Quando mio padre m’insegnò la A
era solo un ragazzo
che aveva smesso da poco di bucarsi
ed io, oggi, penso alla forza che mio padre ha avuto
per uscirne, per salvarsi e al contempo per crescermi
e per insegnarmi tutte le cose che mi ha insegnato
per insegnarmi il modo in cui sono e che so
portarmi dietro in tutto il tempo che s’infutura
nell’ecco più duro d’ogni passato che avrò domani.
Quando mio padre mi spiegò come disegnare la A
mi prese e mi mise sulla sedia, con una penna e un foglio davanti
e mi disse fai la A, falla un po’ di volte.
Io ne feci sette, e furono sette A uguali
uguali a quelle che avevo sempre fatto, uguali l’una con le altre.
Allora mio padre disse non è così la A, la A si fa così.
E ne fece una, sullo stesso foglio delle mie sette A
e poi: rifalla.
E io la rifeci, ma non era la stessa, era a metà fra le mie e la sua.
E mio padre allora mi bruciò fortissimo una guancia
con il legno della sua mano dal mento all’orecchio
e disse che ero un mongoloide a non saper fare la A
perché la A si fa come la faceva lui
e solo un mongoloide non la sa ricopiare.
Quando mio padre m’insegnò la A
era solo un ragazzo
ma non mollò, non demorse
ci si impegnò di brutto, diede tutto
ed è solo grazie alla sua tenacia
a quell’intero pomeriggio di urla, schiaffi e cuore rotto in faccia
che io adesso ho la sua A
che indiscutibilmente è più bella di quella che avevo io
questa si può vedere, l’altra era inguardabile
questa è come una rosa, l’altra come un’ortica
e, anche se potrebbe sembrare difficile crederlo
mio padre fu ancora più utile quando m’insegnò
con lo stesso metodo l’intero alfabeto
dalla B alla Z fu dura, fu tosta
ma anche lì riuscimmo e ancora adesso
dopo così tanti anni
mentre scrivo queste righe
l’alfabeto di mio padre è incollato ad ogni cosa che scrivo
il suo alfabeto luccica da tutti i taccuini che ho
riempito in questi molti anni di poesia.
Quando mio padre m’insegnò la forma giusta delle lettere
come scrivere quello che scrivo
era solo un ragazzo appena risorto
un ragazzo affamato che voleva soltanto
prendere in braccio ogni santo del paradiso
cacciare via ogni scimmia dalla testa
solo un ragazzo che voleva l’amore fosse una festa
solo un ragazzo che con gli sgobbi pensava di farci svoltare per sempre
solo un ragazzo che stava diventando padre per sempre.
IX
Un giorno mio padre
già diventato padre
si prese tre roipnol insieme al Caifa
che se ne prese una boccetta in un colpo solo.
Stavano a Villa Ada
e mio padre, ad una certa
non lo reggeva più il Caifa
lo lasciò lì, s’era rotto il cazzo
voleva starsene senza fastidio
che il Caifa con una boccetta di roipnol
aveva sballato di brutto
sembrava un giaguaro in calore.
Mio padre s’era preso tre roipnol
perché era quasi un giorno che stava senza roba
non riusciva a trovarla, non ce n’era negozio
e prese il roipnol per sostituirla
e mio padre se lo prese perché mio padre voleva stare bene
stare in pace
stare migliore
e se anche il Caifa era un fratello per mio padre
a mio padre importava stare, il Caifa o no, bene
stare in pace
stare migliore.
Un giorno mio padre già padre
si prese tre roipnol per non stare a rota
e lasciò il Caifa da solo a Villa Ada
si fece la Salaria a piedi
come muovendosi in un miele di luci
e si addormentò a casa del Cicala
cercando di stare bene
cercando di stare in pace
cercando di stare migliore.
Quando mio padre si svegliò a casa del Cicala
gli si svegliò la testa ma non il resto
solo la testa e non il corpo
e tentò di alzarsi, di muoversi
ma il suo corpo non aveva fantasia, non aveva modo
e così a mio padre vennero tre ore di angoscia
prima di stramazzare nuovamente nel sonno.
Mio padre da allora si promise di non prendere
più roipnol per quando stava a rota
si promise solo la roba
che come ti fa stare la roba, neppure gli angeli dell’amore
se lo promise, ma tradì e non mantenne
quando la roba mancava il roipnol tornava
come quando inizia il giorno
e resti addormentato per stare al buio
come quando entri in un tunnel
ed accendi una torcia per avere ancora un po’ di luce.
Quando mio padre si prese tre roipnol con il Caifa a Villa Ada
era solo un ragazzo
a cui premeva di stare bene
di stare in pace
di stare migliore
della vita di merda ingoiata sapendo di doverne il futuro
della vita di schifo che già aveva vissuto suo padre
la vita di schifo di tutti i padri poveri al mondo
e di tutti i padri diventati padri quando erano solo ragazzi.
Quando mio padre cercava la roba per mettersela in paradiso
per un po’ di pace, per un po’ di migliore
per cancellare dalla sua faccia il trucco spietato
che la gente usa di nascosto per nascondersi
nel loro guscio di conforto e sottomissione
mio padre si promise di non prendersi più il roipnol
ma si promise anche di non andare mai sotto padrone.
Io dico che era solo un ragazzo
e se di sé sbagliò qualcosa
la sbagliò avendo anche ragione.
XV
Quando mio padre si svegliava la domenica
era solo un ragazzo
a cui non tutto andava per il verso giusto
a cui poco del mondo andava a genio
e con qualcosa e con qualcuno doveva pur prendersela
e quasi sempre iniziava da mia madre
che gli dormiva a fianco, che era la più vicina fra tutti
che gli faceva saltare la mosca al naso per mille motivi
forse anche per il fatto d’averlo fatto padre
per il fatto d’averlo condannato ad un’altra madre.
Quando mio padre, la domenica, svegliandosi
a fianco del suo orrore si trovava mia madre
era solo un ragazzo
che la prendeva e strillava di botte
che non ce la faceva più e sperava di demolire
i mattoni che gli dicevano casa, che gli dicevano gabbia
sperava di demolire il mattino da dentro mia madre
fracassandole ogni desiderio di casa
ogni desiderio che mia madre custodiva
nei lividi che si lasciava fiorire senza evidenza
che faceva brillare senza farseli guardare.
Quando mio padre si svegliò quella domenica
e di fianco si trovò mia madre
era solo un ragazzo
un ragazzo che cominciò la domenica
come si comincia un pestaggio
ed io avrò avuto, quel quando, nove o dieci anni
mi presi la mano e la diedi ai vetri
la presi e la scaraventai
in mezzo al vetro del finestrone in salotto
aprendola in fuori nel fragore di sangue di un bel colpo
uscendola da un frastuono di vetri spezzati e sbattuti a terra
come un’asse di legno su una distesa di ciottoli
in un botto che non si poteva non ascoltare
che anche fra le righe d’urli di mio padre
che anche fra le basole di schiaffi di mio padre
si riuscì ad ascoltare, tutto il palazzo poté ascoltare
mia madre e mio padre lo ascoltarono
e si fermarono subito, subito mio padre si fermò
e mia madre schizzò fuori dalla camera e venne in salotto
venne verso dove era nato quel gran botto
e mi trovò in piedi davanti al finestrone
con la mano spezzata di vetri
e io la trovai bellissima, arruffata di pianto
scapigliata di botte, stravolta di percosse
la trovai bellissima e finalmente salva, finalmente libera
e mi trovò in piedi davanti al sangue rotto del finestrone
mi trovò con un sorriso enorme di ventimila occhi
perché l’avevo salvata dalla domenica di mio padre
e dalla sua ennesima macellazione.
XXIII
Mia sorella si ricorda di quando mio padre
era solo un ragazzo
e mi ha ricordato cose che non ricordavo
di quando nostro padre era solo un ragazzo
e che se voglio ricordarmele, dato che ora me le ha ricordate
è meglio che io le scriva subito, immediatamente
prima che il ricordo si faccia di nuovo dimenticare.
Mia sorella si ricorda che quando mio padre
era solo un ragazzo
e lei piccola che forse tre anni
mio padre mi prese che io forse cinque anni
mi prese mezzo nudo e mi mise su una sedia
e mia sorella si ricorda che mi menò
senza che io avessi fatto nulla per meritarlo
mi menò sia a lezione sia a monito
ma non rivolta o rivolto a me e a mia sorella
piuttosto per se stesso davanti ai suoi amici
perché quando io forse cinque anni
mezzo nudo e messo in sedia
mio padre era solo un ragazzo
e mi menò davanti a mia sorella e ai suoi amici
a lezione, a monito.
Sì, perché quando mio padre mi prese a cinque anni
davanti a mia sorella e ai suoi amici
mio padre mise in scena una lezione
mio padre imparava la messa in scena della sua lezione
imparava la lezione di fronte a tutti
e così facendo insegnava a tutti noi
che lui era padre e sul figlio aveva diritto di padre
diritto e potere d’educazione, di formazione
e davanti a tutti e di fronte a me, cioè a se stesso
voleva ribadirlo chiaramente:
era padre e in quanto padre aveva dovere di patrimonio
doveva educazione e lezione ad eredità
di suo figlio, suo nel mondo, davanti a tutti.
E se spesso si confondono i piani quando c’è educazione
chiamando la sottomissione dell’educando all’educatore
(genitore, stato, scuola, fabbrica, ufficio)
rispetto
(per chi padre, chi presidente, chi capo, chi più vecchio)
mio padre insegnando a sé la sua lezione
di padre che deve il suo dovere
mi ha insegnato che il rispetto
è una parola del tutto inappropriata ed oscura
quando la lezione ti arriva addosso
come un rogo, come una tortura
e che la parola più giusta da usare
in questi casi, sia, in verità, paura.
XXIV
Si ricorda mia sorella anche altro di mio padre
e di quando era solo un ragazzo
e voglio ora scrivere solo di un altro suo ricordo
perché fra tutti è quello di cui qualcosa ricordo anche io
o meglio con il racconto del suo ricordo qualcosa si è acceso
nella mia memoria, se non altro come possibilità.
Quando quel che si ricorda mia sorella è avvenuto
mio padre era solo un ragazzo
e lei sei-sette, io probabilmente nove.
Eravamo a terra in salotto
e mio padre sul divano a leggere il giornale
a mezzo metro da noi che eravamo io e lei giocando piano
in silenzio, a dama, a terra in salotto
e mio padre muto fra i fruscii del giornale
che prestava a nuove pagine.
Eravamo io e mia sorella in silenzio
nell’età che di solito, quando si gioca
si gioca in schiamazzo, si gioca in urlo
perché gioco è anche l’urlo
l’urlo e il suo limite, l’urlo e la sua liceità
quando si gioca e non si gioca, si disturba o si gode
eravamo io e mia sorella giocando a dama in silenzio
eravamo io e lei a terra giocando piano
per non disturbare nostro padre che leggeva muto
con i soli fruscii del suo giornale a parlarci
e giocavamo a terra, in salotto
in silenzio a mezzo metro da lui
perché il limite dell’urlo, del gioco, del disturbo
li conoscevamo perfettamente
nostro padre ce li aveva insegnati
menandoci di urla, sbraitandoci di schiaffi
ogni volta superato il limite
e per maggior sua tranquillità d’insegnamento
e per maggior nostra capacità d’apprendimento
anche quando quel limite si era ben lontani dal superarlo.
Conoscevamo il limite, io e mia sorella
ma quella volta, a terra, in salotto, a mezzo metro da lui
quella volta accadde che all’ennesima mia truffa di gioco
mia sorella si fece scappare un Guido però!
di un decibel sopra il sussurro
e fu un errore, fu un espatrio clandestino dal silenzio
a mezzo metro da lui, un errore di suono
perché nostro padre tolse subito una mano dal giornale
e me la rovesciò addosso
con la furia equina dell’osso in faccia
e fu un colpo dato alle spalle
un colpo non visto prima di arrivare
una sorta di bastonata mentre si dorme
e non tolsi via me stesso da quel galoppo
rimasi seduto a terra con la testa in frastuono di stelle
con uno stormo di lampi dentro agli occhi
e neppure una lacrima, neanche una
e restammo a terra, in salotto, a mezzo metro da lui
io e mia sorella continuando la dama in silenzio
in silenzio assoluto.
Quel decibel sopra il sussurro
mentre nostro padre ragazzo era in cerca del silenzio perfetto
del salotto perfetto, della lettura del giornale perfetta
della nostra assenza perfetta, del suo riposo perfetto
quel decibel mia sorella ancora se lo porta in colpa
ma dovrebbe, come ho fatto io, capire
che grazie a quel suo errore abbiamo entrambi maturato
in fondo al cuore ogni avversione per le parole
che il comportamento umano trasforma in delazione
e che grazie a quel Guido però! ora ci è chiarissimo
che un errore si paga caro, bisogna essere accorti
altrimenti la vita ci attende con l’ossonero della sua punizione.
XXVIII
Quando smisi di parlare con mio padre
mio padre che era stato solo un ragazzo
lo era stato ormai, già stato e non più ragazzo
quando smisi di parlargli non lo era più
ed io smisi con tanti anni di ritardo
di parlare con mio padre ragazzo, ma smettendo
stavo smettendo di parlare con mio padre non più ragazzo
e così facendo, né lui né io capimmo bene perché
un figlio aveva smesso di parlare improvvisamente al padre
senza annunciare un passato di fatti accaduti
ma così, da un momento all’altro
a distanza di tanti passati da quel passato lì
di quando io cominciavo ad essere me
e mio padre era solo un ragazzo.
Quando smisi di parlare con mio padre
mio padre oramai aveva dimenticato
d’essere stato solo un ragazzo
e sapeva soltanto d’aver cresciuto un figlio
come lo cresce un padre quando è padre
e così non capì quando smisi di parlargli come un ragazzo smette
di parlare ad un altro ragazzo
come io non capii che smettendo di parlargli
stavo in realtà impedendomi di parlargli
ed impedendomi di parlare di lui
di quando mio padre era solo un ragazzo
di quando a mio padre non potevo dare una sola parola
così facendo, restavo me a sette anni
e lo tenevo ragazzo a mio padre ragazzo
e continuavo a non dargli parola
come quando ero solo un figlio e lui un ragazzo.
Quando smisi la parola a mio padre
io avevo come ho ancora sette anni
e lo tenevo, tenendoci muti, ancora come solo un ragazzo:
non gli smettevo la parola per vendicarmi dell’orrore
con cui mio padre ragazzo mi aveva ammazzato
ma gli smettevo la parola per tenerlo ancora come era stato
per averlo ancora com’era quando per lui avevo soltanto amore.
XXX
Quando noi quattro si andava dai nonni al mare
mio padre guidava come solo un ragazzo
mia madre davanti sul sedile di fianco
ed io e mia sorella dietro che avevamo
dai zero ai quindici anni
e poi di meno perché sempre di meno
ma con più anni e con mio padre non più ragazzo.
Già prima di salire in macchina mio padre era incazzato
e se prima no, ora mi chiedo perché lo fosse
mi chiedo se non gli andasse di andare al mare
se non gli andasse di guidare o di stare con noi
me lo chiedo adesso ma so che adesso non è l’adesso di allora
non erano di certo queste ragioni di adesso che mi chiedo ora
le ragioni di allora quando nulla mi chiedevo
le ragioni di allora quando il buio avvolgeva ogni ragione di ragazzo
il buio in cui risplendeva la scintilla del suo amore di ragazzo
il buio violento della sua ragione di ragazzo, il suo buio ragazzo
che pur essendo buio di padre era prima di ogni altra cosa
buio ragazzo nel ragazzo e poi ancora soltanto buio
in ragione d’ogni violenza di padre che è ragazzo.
Quando si andava tutti e quattro insieme dai nonni al mare
il viaggio iniziava prima di iniziare
iniziava il giorno prima preparando i bagagli
meticolosamente, rabbiosamente: primo motivo
per distruggere casa, mamma
e pure ogni creato porcoddio sulla faccia della Terra
primo passo per andare al mare
primo movimento di buio per il mare
ed iniziava a casa:
il mare e i nonni iniziavano nel buio
delle cose da prendere prima di andare.
Nell’andare prima di andare al mare
erano i nonni, il mare e le borse con dentro
tutte le cose da prendere prima di andare
senza scordarne una, senza aggiungerne una
le giuste esatte cose da prendere prima di andare
nel buio del mare dei nonni
le giuste precise cose da portare
per andare prima di andare al mare
cominciando da casa il buio di preparare tutte le cose
e il buio di sfasciare tutto il resto
di sfasciare la voglia di andare dai nonni
la voglia di andare al mare.
Se mancava una cosa nelle borse
di mia madre era colpa
di mia madre che ogni cosa doveva ricordare
ogni cosa voleva fosse portata mio padre
mia madre doveva ricordare
ricordare, prendere e mettere in borsa prima di andare
e se la dimenticava, non la metteva in borsa
a seconda della sua ogni volta mutevole importanza
era il buio: il buio nell’insulto, il buio dello schiaffo
il buio ragazzo dello spaccare il padre dentro di sé.
Dopo che mia madre aveva preso tutte le cose
che doveva ricordare di prendere
che non doveva dimenticare di mettere in borsa
tutte le cose che mio padre voleva si portassero
avveniva a volto buio, a parola buia, a bocca buia
il momento di prendere le borse in cui c’era
ogni cosa ricordata, presa e messa da mia madre
il momento di prendere le borse
per metterle nel bagagliaio della macchina.
Del bagagliaio si occupava mio padre
mio padre facchino, mio padre ragazzo
ed era, spesso, anche questo un buio
perché all’inizio ci faceva fare a noi
ci faceva mettere a noi le borse nel bagagliaio
ci faceva sbagliare a noi le borse nel bagagliaio
il come mettere le borse nel bagagliaio
per poi incazzarsi di come l’ordine
di come la posizione, di come la forma del carico
fosse sbagliato nel bagagliaio
per poi incazzarsi e buttare tutte le borse a terra
per poi incazzarsi e mettere tutto in buio
offendendoci tutti, strillandoci tutti
e, lentamente, come a mostrare, come a insegnare
riprendendo tutte le borse
dal buio di dove le aveva buttate a terra
rimettendo nel buio del bagagliaio
le borse in cui avevamo ogni cosa
ricordata e messa prima di andare dai nonni al mare.
E poi, in molteplice malumore, si partiva il viaggio
con mio padre ragazzo in spericolata guida di ragazzo
con mio padre selvaggio in buio di ragazzo
con mia madre a fianco in continua paura di madre
paura di come mio padre guidasse in buio
paura delle già tutte cose di buio ragazzo
ma soprattutto delle future cose che nel buio ci attendevano
ed io e mia sorella dietro in terrore, al buio d’ogni cosa.
Ecco, questo è quanto prima del viaggio
ma quello che vado ora a dire era il viaggio
e non dirò più né le ragioni, né gli inizi
e neppure gli svolgimenti di tutte le cose in buio
che nel buio di quella macchina, per tanti anni
accadevano, nascevano ed esplodevano
non m’interessa ora parlarne, stenderne una lista
m’interessa ora dire come imparai a vedere in quel buio
il barocco di luce che nel buio c’è come in petrolio
e dirò solo di come io e non di come mia sorella
perché dovrei chiederglielo ed ora non è
il periodo giusto: mia sorella sta male.
All’inizio il mio come è stato quello
di portare la testa altrove: inventare
numeri, liste di numeri, somme di numeri, storie di numeri.
Poi, crescendo, mi è cambiato il come: guardare
paesaggi, pensare paesaggi, paesaggiare, smontare paesaggi.
Ancora dopo, crescendo, di nuovo
è cambiato il mio come: ascoltare
musica, musica in cuffia, musica a volume altissimo
paesaggiare musica, somme di musica, guardare la musica.
E questo mio come
m’è rimasto ancora adesso addosso
che la vita mi offre viaggi e bui diversi
il mio come è ancora questo
il come è questo che posso.