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Immagine del redattoreGuido Celli

ERA SOLO UN RAGAZZO (un estratto)

Aggiornamento: 1 giorno fa



A mio padre:

le cose più importanti che so.



VI


Quando mio padre decise d’insegnarmi come scrivere correttamente la A

era solo un ragazzo

ma ci mise impegno, non tralasciò i più seri argomenti

anche se era un ragazzo

mio padre sviluppò un metodo talmente preciso e perfetto

che in una sola lezione, per quanto lunga

mi ha insegnato tutto quello che c’era da sapere sulla A

ed è la stessa A che tuttora scrivo

proprio come mi ha insegnato mio padre.


Quando mio padre m’insegnò la A

era solo un ragazzo

che aveva smesso da poco di bucarsi

ed io, oggi, penso alla forza che mio padre ha avuto

per uscirne, per salvarsi e al contempo per crescermi

e per insegnarmi tutte le cose che mi ha insegnato

per insegnarmi il modo in cui sono e che so

portarmi dietro in tutto il tempo che s’infutura

nell’ecco più duro d’ogni passato che avrò domani.


Quando mio padre mi spiegò come disegnare la A

mi prese e mi mise sulla sedia, con una penna e un foglio davanti

e mi disse fai la A, falla un po’ di volte.

Io ne feci sette, e furono sette A uguali

uguali a quelle che avevo sempre fatto, uguali l’una con le altre.

Allora mio padre disse non è così la A, la A si fa così.

E ne fece una, sullo stesso foglio delle mie sette A

e poi: rifalla.

E io la rifeci, ma non era la stessa, era a metà fra le mie e la sua.

E mio padre allora mi bruciò fortissimo una guancia

con il legno della sua mano dal mento all’orecchio

e disse che ero un mongoloide a non saper fare la A

perché la A si fa come la faceva lui

e solo un mongoloide non la sa ricopiare.


Quando mio padre m’insegnò la A

era solo un ragazzo

ma non mollò, non demorse

ci si impegnò di brutto, diede tutto

ed è solo grazie alla sua tenacia

a quell’intero pomeriggio di urla, schiaffi e cuore rotto in faccia

che io adesso ho la sua A

che indiscutibilmente è più bella di quella che avevo io

questa si può vedere, l’altra era inguardabile

questa è come una rosa, l’altra come un’ortica

e, anche se potrebbe sembrare difficile crederlo

mio padre fu ancora più utile quando m’insegnò

con lo stesso metodo l’intero alfabeto

dalla B alla Z fu dura, fu tosta

ma anche lì riuscimmo e ancora adesso

dopo così tanti anni

mentre scrivo queste righe

l’alfabeto di mio padre è incollato ad ogni cosa che scrivo

il suo alfabeto luccica da tutti i taccuini che ho

riempito in questi molti anni di poesia.


Quando mio padre m’insegnò la forma giusta delle lettere

come scrivere quello che scrivo

era solo un ragazzo appena risorto

un ragazzo affamato che voleva soltanto

prendere in braccio ogni santo del paradiso

cacciare via ogni scimmia dalla testa

solo un ragazzo che voleva l’amore fosse una festa

solo un ragazzo che con gli sgobbi pensava di farci svoltare per sempre

solo un ragazzo che stava diventando padre per sempre.



IX


Un giorno mio padre

già diventato padre

si prese tre roipnol insieme al Caifa

che se ne prese una boccetta in un colpo solo.

Stavano a Villa Ada

e mio padre, ad una certa

non lo reggeva più il Caifa

lo lasciò lì, s’era rotto il cazzo

voleva starsene senza fastidio

che il Caifa con una boccetta di roipnol

aveva sballato di brutto

sembrava un giaguaro in calore.


Mio padre s’era preso tre roipnol

perché era quasi un giorno che stava senza roba

non riusciva a trovarla, non ce n’era negozio

e prese il roipnol per sostituirla

e mio padre se lo prese perché mio padre voleva stare bene

stare in pace

stare migliore

e se anche il Caifa era un fratello per mio padre

a mio padre importava stare, il Caifa o no, bene

stare in pace

stare migliore.


Un giorno mio padre già padre

si prese tre roipnol per non stare a rota

e lasciò il Caifa da solo a Villa Ada

si fece la Salaria a piedi

come muovendosi in un miele di luci

e si addormentò a casa del Cicala

cercando di stare bene

cercando di stare in pace

cercando di stare migliore.


Quando mio padre si svegliò a casa del Cicala

gli si svegliò la testa ma non il resto

solo la testa e non il corpo

e tentò di alzarsi, di muoversi

ma il suo corpo non aveva fantasia, non aveva modo

e così a mio padre vennero tre ore di angoscia

prima di stramazzare nuovamente nel sonno.


Mio padre da allora si promise di non prendere

più roipnol per quando stava a rota

si promise solo la roba

che come ti fa stare la roba, neppure gli angeli dell’amore

se lo promise, ma tradì e non mantenne

quando la roba mancava il roipnol tornava

come quando inizia il giorno

e resti addormentato per stare al buio

come quando entri in un tunnel

ed accendi una torcia per avere ancora un po’ di luce.


Quando mio padre si prese tre roipnol con il Caifa a Villa Ada

era solo un ragazzo

a cui premeva di stare bene

di stare in pace

di stare migliore

della vita di merda ingoiata sapendo di doverne il futuro

della vita di schifo che già aveva vissuto suo padre

la vita di schifo di tutti i padri poveri al mondo

e di tutti i padri diventati padri quando erano solo ragazzi.


Quando mio padre cercava la roba per mettersela in paradiso

per un po’ di pace, per un po’ di migliore

per cancellare dalla sua faccia il trucco spietato

che la gente usa di nascosto per nascondersi

nel loro guscio di conforto e sottomissione

mio padre si promise di non prendersi più il roipnol

ma si promise anche di non andare mai sotto padrone.


Io dico che era solo un ragazzo

e se di sé sbagliò qualcosa

la sbagliò avendo anche ragione.



XV


Quando mio padre si svegliava la domenica

era solo un ragazzo

a cui non tutto andava per il verso giusto

a cui poco del mondo andava a genio

e con qualcosa e con qualcuno doveva pur prendersela

e quasi sempre iniziava da mia madre

che gli dormiva a fianco, che era la più vicina fra tutti

che gli faceva saltare la mosca al naso per mille motivi

forse anche per il fatto d’averlo fatto padre

per il fatto d’averlo condannato ad un’altra madre.


Quando mio padre, la domenica, svegliandosi

a fianco del suo orrore si trovava mia madre

era solo un ragazzo

che la prendeva e strillava di botte

che non ce la faceva più e sperava di demolire

i mattoni che gli dicevano casa, che gli dicevano gabbia

sperava di demolire il mattino da dentro mia madre

fracassandole ogni desiderio di casa

ogni desiderio che mia madre custodiva

nei lividi che si lasciava fiorire senza evidenza

che faceva brillare senza farseli guardare.


Quando mio padre si svegliò quella domenica

e di fianco si trovò mia madre

era solo un ragazzo

un ragazzo che cominciò la domenica

come si comincia un pestaggio

ed io avrò avuto, quel quando, nove o dieci anni

mi presi la mano e la diedi ai vetri

la presi e la scaraventai

in mezzo al vetro del finestrone in salotto

aprendola in fuori nel fragore di sangue di un bel colpo

uscendola da un frastuono di vetri spezzati e sbattuti a terra

come un’asse di legno su una distesa di ciottoli

in un botto che non si poteva non ascoltare

che anche fra le righe d’urli di mio padre

che anche fra le basole di schiaffi di mio padre

si riuscì ad ascoltare, tutto il palazzo poté ascoltare

mia madre e mio padre lo ascoltarono

e si fermarono subito, subito mio padre si fermò

e mia madre schizzò fuori dalla camera e venne in salotto

venne verso dove era nato quel gran botto

e mi trovò in piedi davanti al finestrone

con la mano spezzata di vetri

e io la trovai bellissima, arruffata di pianto

scapigliata di botte, stravolta di percosse

la trovai bellissima e finalmente salva, finalmente libera

e mi trovò in piedi davanti al sangue rotto del finestrone

mi trovò con un sorriso enorme di ventimila occhi

perché l’avevo salvata dalla domenica di mio padre

e dalla sua ennesima macellazione.



XXIII


Mia sorella si ricorda di quando mio padre

era solo un ragazzo

e mi ha ricordato cose che non ricordavo

di quando nostro padre era solo un ragazzo

e che se voglio ricordarmele, dato che ora me le ha ricordate

è meglio che io le scriva subito, immediatamente

prima che il ricordo si faccia di nuovo dimenticare.


Mia sorella si ricorda che quando mio padre

era solo un ragazzo

e lei piccola che forse tre anni

mio padre mi prese che io forse cinque anni

mi prese mezzo nudo e mi mise su una sedia

e mia sorella si ricorda che mi menò

senza che io avessi fatto nulla per meritarlo

mi menò sia a lezione sia a monito

ma non rivolta o rivolto a me e a mia sorella

piuttosto per se stesso davanti ai suoi amici

perché quando io forse cinque anni

mezzo nudo e messo in sedia

mio padre era solo un ragazzo

e mi menò davanti a mia sorella e ai suoi amici

a lezione, a monito.


Sì, perché quando mio padre mi prese a cinque anni

davanti a mia sorella e ai suoi amici

mio padre mise in scena una lezione

mio padre imparava la messa in scena della sua lezione

imparava la lezione di fronte a tutti

e così facendo insegnava a tutti noi

che lui era padre e sul figlio aveva diritto di padre

diritto e potere d’educazione, di formazione

e davanti a tutti e di fronte a me, cioè a se stesso

voleva ribadirlo chiaramente:

era padre e in quanto padre aveva dovere di patrimonio

doveva educazione e lezione ad eredità

di suo figlio, suo nel mondo, davanti a tutti.


E se spesso si confondono i piani quando c’è educazione

chiamando la sottomissione dell’educando all’educatore

(genitore, stato, scuola, fabbrica, ufficio)

rispetto

(per chi padre, chi presidente, chi capo, chi più vecchio)

mio padre insegnando a sé la sua lezione

di padre che deve il suo dovere

mi ha insegnato che il rispetto

è una parola del tutto inappropriata ed oscura

quando la lezione ti arriva addosso

come un rogo, come una tortura

e che la parola più giusta da usare

in questi casi, sia, in verità, paura.



XXIV


Si ricorda mia sorella anche altro di mio padre

e di quando era solo un ragazzo

e voglio ora scrivere solo di un altro suo ricordo

perché fra tutti è quello di cui qualcosa ricordo anche io

o meglio con il racconto del suo ricordo qualcosa si è acceso

nella mia memoria, se non altro come possibilità.


Quando quel che si ricorda mia sorella è avvenuto

mio padre era solo un ragazzo

e lei sei-sette, io probabilmente nove.

Eravamo a terra in salotto

e mio padre sul divano a leggere il giornale

a mezzo metro da noi che eravamo io e lei giocando piano

in silenzio, a dama, a terra in salotto

e mio padre muto fra i fruscii del giornale

che prestava a nuove pagine.

Eravamo io e mia sorella in silenzio

nell’età che di solito, quando si gioca

si gioca in schiamazzo, si gioca in urlo

perché gioco è anche l’urlo

l’urlo e il suo limite, l’urlo e la sua liceità

quando si gioca e non si gioca, si disturba o si gode

eravamo io e mia sorella giocando a dama in silenzio

eravamo io e lei a terra giocando piano

per non disturbare nostro padre che leggeva muto

con i soli fruscii del suo giornale a parlarci

e giocavamo a terra, in salotto

in silenzio a mezzo metro da lui

perché il limite dell’urlo, del gioco, del disturbo

li conoscevamo perfettamente

nostro padre ce li aveva insegnati

menandoci di urla, sbraitandoci di schiaffi

ogni volta superato il limite

e per maggior sua tranquillità d’insegnamento

e per maggior nostra capacità d’apprendimento

anche quando quel limite si era ben lontani dal superarlo.


Conoscevamo il limite, io e mia sorella

ma quella volta, a terra, in salotto, a mezzo metro da lui

quella volta accadde che all’ennesima mia truffa di gioco

mia sorella si fece scappare un Guido però!

di un decibel sopra il sussurro

e fu un errore, fu un espatrio clandestino dal silenzio

a mezzo metro da lui, un errore di suono

perché nostro padre tolse subito una mano dal giornale

e me la rovesciò addosso

con la furia equina dell’osso in faccia

e fu un colpo dato alle spalle

un colpo non visto prima di arrivare

una sorta di bastonata mentre si dorme

e non tolsi via me stesso da quel galoppo

rimasi seduto a terra con la testa in frastuono di stelle

con uno stormo di lampi dentro agli occhi

e neppure una lacrima, neanche una

e restammo a terra, in salotto, a mezzo metro da lui

io e mia sorella continuando la dama in silenzio

in silenzio assoluto.


Quel decibel sopra il sussurro

mentre nostro padre ragazzo era in cerca del silenzio perfetto

del salotto perfetto, della lettura del giornale perfetta

della nostra assenza perfetta, del suo riposo perfetto

quel decibel mia sorella ancora se lo porta in colpa

ma dovrebbe, come ho fatto io, capire

che grazie a quel suo errore abbiamo entrambi maturato

in fondo al cuore ogni avversione per le parole

che il comportamento umano trasforma in delazione

e che grazie a quel Guido però! ora ci è chiarissimo

che un errore si paga caro, bisogna essere accorti

altrimenti la vita ci attende con l’ossonero della sua punizione.



XXVIII


Quando smisi di parlare con mio padre

mio padre che era stato solo un ragazzo

lo era stato ormai, già stato e non più ragazzo

quando smisi di parlargli non lo era più

ed io smisi con tanti anni di ritardo

di parlare con mio padre ragazzo, ma smettendo

stavo smettendo di parlare con mio padre non più ragazzo

e così facendo, né lui né io capimmo bene perché

un figlio aveva smesso di parlare improvvisamente al padre

senza annunciare un passato di fatti accaduti

ma così, da un momento all’altro

a distanza di tanti passati da quel passato lì

di quando io cominciavo ad essere me

e mio padre era solo un ragazzo.


Quando smisi di parlare con mio padre

mio padre oramai aveva dimenticato

d’essere stato solo un ragazzo

e sapeva soltanto d’aver cresciuto un figlio

come lo cresce un padre quando è padre

e così non capì quando smisi di parlargli come un ragazzo smette

di parlare ad un altro ragazzo

come io non capii che smettendo di parlargli

stavo in realtà impedendomi di parlargli

ed impedendomi di parlare di lui

di quando mio padre era solo un ragazzo

di quando a mio padre non potevo dare una sola parola

così facendo, restavo me a sette anni

e lo tenevo ragazzo a mio padre ragazzo

e continuavo a non dargli parola

come quando ero solo un figlio e lui un ragazzo.


Quando smisi la parola a mio padre

io avevo come ho ancora sette anni

e lo tenevo, tenendoci muti, ancora come solo un ragazzo:

non gli smettevo la parola per vendicarmi dell’orrore

con cui mio padre ragazzo mi aveva ammazzato

ma gli smettevo la parola per tenerlo ancora come era stato

per averlo ancora com’era quando per lui avevo soltanto amore.



XXX


Quando noi quattro si andava dai nonni al mare

mio padre guidava come solo un ragazzo

mia madre davanti sul sedile di fianco

ed io e mia sorella dietro che avevamo

dai zero ai quindici anni

e poi di meno perché sempre di meno

ma con più anni e con mio padre non più ragazzo.


Già prima di salire in macchina mio padre era incazzato

e se prima no, ora mi chiedo perché lo fosse

mi chiedo se non gli andasse di andare al mare

se non gli andasse di guidare o di stare con noi

me lo chiedo adesso ma so che adesso non è l’adesso di allora

non erano di certo queste ragioni di adesso che mi chiedo ora

le ragioni di allora quando nulla mi chiedevo

le ragioni di allora quando il buio avvolgeva ogni ragione di ragazzo

il buio in cui risplendeva la scintilla del suo amore di ragazzo

il buio violento della sua ragione di ragazzo, il suo buio ragazzo

che pur essendo buio di padre era prima di ogni altra cosa

buio ragazzo nel ragazzo e poi ancora soltanto buio

in ragione d’ogni violenza di padre che è ragazzo.


Quando si andava tutti e quattro insieme dai nonni al mare

il viaggio iniziava prima di iniziare

iniziava il giorno prima preparando i bagagli

meticolosamente, rabbiosamente: primo motivo

per distruggere casa, mamma

e pure ogni creato porcoddio sulla faccia della Terra

primo passo per andare al mare

primo movimento di buio per il mare

ed iniziava a casa:

il mare e i nonni iniziavano nel buio

delle cose da prendere prima di andare.


Nell’andare prima di andare al mare

erano i nonni, il mare e le borse con dentro

tutte le cose da prendere prima di andare

senza scordarne una, senza aggiungerne una

le giuste esatte cose da prendere prima di andare

nel buio del mare dei nonni

le giuste precise cose da portare

per andare prima di andare al mare

cominciando da casa il buio di preparare tutte le cose

e il buio di sfasciare tutto il resto

di sfasciare la voglia di andare dai nonni

la voglia di andare al mare.


Se mancava una cosa nelle borse

di mia madre era colpa

di mia madre che ogni cosa doveva ricordare

ogni cosa voleva fosse portata mio padre

mia madre doveva ricordare

ricordare, prendere e mettere in borsa prima di andare

e se la dimenticava, non la metteva in borsa

a seconda della sua ogni volta mutevole importanza

era il buio: il buio nell’insulto, il buio dello schiaffo

il buio ragazzo dello spaccare il padre dentro di sé.


Dopo che mia madre aveva preso tutte le cose

che doveva ricordare di prendere

che non doveva dimenticare di mettere in borsa

tutte le cose che mio padre voleva si portassero

avveniva a volto buio, a parola buia, a bocca buia

il momento di prendere le borse in cui c’era

ogni cosa ricordata, presa e messa da mia madre

il momento di prendere le borse

per metterle nel bagagliaio della macchina.


Del bagagliaio si occupava mio padre

mio padre facchino, mio padre ragazzo

ed era, spesso, anche questo un buio

perché all’inizio ci faceva fare a noi

ci faceva mettere a noi le borse nel bagagliaio

ci faceva sbagliare a noi le borse nel bagagliaio

il come mettere le borse nel bagagliaio

per poi incazzarsi di come l’ordine

di come la posizione, di come la forma del carico

fosse sbagliato nel bagagliaio

per poi incazzarsi e buttare tutte le borse a terra

per poi incazzarsi e mettere tutto in buio

offendendoci tutti, strillandoci tutti

e, lentamente, come a mostrare, come a insegnare

riprendendo tutte le borse

dal buio di dove le aveva buttate a terra

rimettendo nel buio del bagagliaio

le borse in cui avevamo ogni cosa

ricordata e messa prima di andare dai nonni al mare.


E poi, in molteplice malumore, si partiva il viaggio

con mio padre ragazzo in spericolata guida di ragazzo

con mio padre selvaggio in buio di ragazzo

con mia madre a fianco in continua paura di madre

paura di come mio padre guidasse in buio

paura delle già tutte cose di buio ragazzo

ma soprattutto delle future cose che nel buio ci attendevano

ed io e mia sorella dietro in terrore, al buio d’ogni cosa.


Ecco, questo è quanto prima del viaggio

ma quello che vado ora a dire era il viaggio

e non dirò più né le ragioni, né gli inizi

e neppure gli svolgimenti di tutte le cose in buio

che nel buio di quella macchina, per tanti anni

accadevano, nascevano ed esplodevano

non m’interessa ora parlarne, stenderne una lista

m’interessa ora dire come imparai a vedere in quel buio

il barocco di luce che nel buio c’è come in petrolio

e dirò solo di come io e non di come mia sorella

perché dovrei chiederglielo ed ora non è

il periodo giusto: mia sorella sta male.


All’inizio il mio come è stato quello

di portare la testa altrove: inventare

numeri, liste di numeri, somme di numeri, storie di numeri.

Poi, crescendo, mi è cambiato il come: guardare

paesaggi, pensare paesaggi, paesaggiare, smontare paesaggi.

Ancora dopo, crescendo, di nuovo

è cambiato il mio come: ascoltare

musica, musica in cuffia, musica a volume altissimo

paesaggiare musica, somme di musica, guardare la musica.

E questo mio come

m’è rimasto ancora adesso addosso

che la vita mi offre viaggi e bui diversi

il mio come è ancora questo

il come è questo che posso.


Per questo mio ultimo come

questo come di ascoltare

la musica a volume altissimo

mia sorella mi ha detto ultimamente

che mi ha odiato per questo mio come di perdermi

durante i nostri viaggi per andare dai nonni al mare

mentre nel buio delle mura della macchina

mentre nel buio della camera stretta

del nostro andare al mare, in andata e in ritorno

infuriava ogni sorta di umiliazione e aggressione

mi ha odiato mia sorella perché me ne andavo

mi assentavo, mi perdevo e l’abbandonavo

mentre lei restava, sentiva, vedeva e soffriva

ogni buio di frase, ogni urlo nel buio, ogni schiaffo dal buio.


Ma io so, e mia sorella adesso anche e non mi odia più

che è grazie a quell’andare di noi quattro al mare

grazie a quei viaggi in camera buia di macchina

che io so, adesso so, come salvarmi dal dove

che io so, adesso ancora, stare fuori quando sto dentro

che nel dove sono e sto, so essere e stare altrove

che a quello che vedo ci vedo un suono

e che a quello che sento ci aggiungo un vedo

ed è per questo che il buio è il colore dell’amore

e l’altrove è la visione di ciò in cui credo.



XXXI


Un giorno mio padre

già non più ragazzo da tanto

è tornato prima dal lavoro

prima di pranzo, a mezza mattina

ed era chiuso in volto

ed era scuro agli occhi.


Dopo pranzo, mio padre

solo dopo pranzo, mio padre

ha spiegato a mia madre che a lavoro

durante il trasloco, aveva litigato con il padrone

con il suo padrone, con l’uomo capo che decide chi chiamare

per questo o quel trasloco, ogni mattina

l’uomo padrone del lavoro destino di altri uomini

l’uomo capo, l’uomo chiamata, l’uomo lavoro.


Dicendo questo a mia madre

era come se mio padre stesse dicendo

non ci sarà più traslochi per me, nessuna chiamata più

nessun lavoro più: fine, basta, ho sessant’anni

e a sessant’anni, quando sei facchino, il padrone che hai

è il tuo ultimo padrone, il tuo ultimo uomo chiamata

e quindi a sessant’anni, senza più un uomo lavoro

hai perso per sempre il lavoro.


Quando ne abbiamo parlato in famiglia

uno a uno, due a due, tre a tre e poi tutti insieme

mia sorella e mia madre erano le più disperate di quel fatto

del fatto di avere un padre non più ragazzo

senza lavoro più, senza un uomo padrone più

e se hanno detto qualcosa era per dire

a mio padre non più ragazzo

mio padre uomo padre, uomo non più ragazzo

che per l’ennesima volta, una volta ancora

il suo carattere di merda l’aveva fregato

che il suo incazzarsi di quando era solo un ragazzo

non lo avrebbe dovuto, ora che era padre uomo e non più

con il suo uomo lavoro, con l’ultimo suo uomo chiamata.


Io ho ascoltato tutto e ho capito subito

che quello che aveva fatto mio padre

litigando con il suo padrone

era una delle ragioni per cui l’ho più amato e amo

perché quello di non mandare giù merda, nonostante convenga

è stato uno degli insegnamenti di mio padre ancora ragazzo

più preziosi che serbo in modo di vita dentro di me

perché un uomo non può mandare giù la merda

non può, non deve e non deve volere, nonostante convenga

perché un uomo non può essere uomo a metà e a metà maiale

ma uomo intero, uomo intero uomo

e deve poter mandare giù soltanto aria, acqua, piante e bestie

e non merda, nonostante convenga:

la merda non deve mai toccare la bocca e la gola di un uomo

quando l’uomo è intero, uomo intero uomo.



XXXII


Da quando bambino fino alla rissa fra peruviani e albanesi

in cui per generosità mi sono trovato a trent’anni

l’unico a menarmi è stato mio padre

dai zero ai trenta l’unico è stato mio padre

tranne che per un’eccezione: uno schiaffo

preso sulla guancia dalla mano della madre

del mio migliore amico e fratello in scelta

del mio amico fratello in vita, da sempre.

Avrò avuto nove anni forse e quello schiaffo

credo lo meritassi, tuttavia non importa:

arrivò dal nulla e me lo presi in pelle.

Quando tornammo dai miei, a casa mia, tutti e tre

io, il mio amico fratello in scelta e sua madre

fu proprio sua madre a raccontare dello schiaffo

che avevo preso in guancia e avevo ancora caldo in pelle.

Allora mio padre

quasi ancora un ragazzo

mi prese come si mette un cane da far vedere

e poi uno schiaffo, sulla stessa guancia già calda in pelle

e poi le parole a mio figlio gli meno soltanto io.

La madre del mio amico prese il mio fratello e se ne andò

e così io rimasi solo, senza l’amico e senza il fratello

con il sangue in vena insinuato nell’orecchio del cuore

e non successe più nulla.


E se ci penso ora penso che mio padre

ancora quasi un ragazzo

quel giorno, ribadendosi padrone

ribadendomi proprietà

ribadendo lui padre me figlio

in verità m’insegnò anche altro

ad aggiunta di quello m’insegnò tantissimo

e nessun altro, a parte lui, nonostante le imbruttite

gli scazzi, le risse cercate e quelle capitate

nonostante gli anni di tante cose rotte in strada

nonostante il barocco della baruffa

nonostante il gotico delle spedizioni

nonostante gli anni di bazzico di certi posti e di certi ambienti

nessun altro ha, fino alla rissa dei trent’anni

mai potuto su di me un colpo

mai riuscito su di me un pugno

una bastonata, una sassata, un qualcosa

nessuno mai ha potuto darmi caldo di pelle in faccia

escludendo il ring, escludendo il pugilato

nessuno mai ha saputo come anche avendoci provato.


A mio figlio gli meno soltanto io e così è stato

nessuno mai c’è riuscito, anche quando si è azzardato

e se ci penso ora penso che mio padre

ancora quasi un ragazzo

quel giorno, dicendolo, mi disse

una cosa tipo di non farmi mettere addosso

la mano da nessuno, proprio nessuno

e posso dire di non averlo mai deluso

nonostante le mie di mani sugli altri.


Ma a ricordarmi oggi di tutto questo

viene in mente anche altro

viene in mente la madre del mio fratello in scelta

madre ragazza madre

che a diciannove anni andò in Giappone a fare la spogliarellista

che a ventitré anni divenne madre in Canada

e che sempre a ventitré anni divenne ragazza madre in Messico.

Viene in mente che a casa sua io ho sempre avuto nido

ed è stata sempre, casa sua

suo figlio mio amico fratello in scelta

stata sempre un posto in cui respirare un mondo altro

un’idea di famiglia altra

un’idea di fuori da Roma

fuori dal mondo del mio mondo

un mondo altro in altre lingue

un mondo altro in altra musica

un mondo guardato in un altro sguardo.

Viene in mente che a casa sua io ho sempre trovato il resto

l’altro che annusavo come un cane in foresta

e che questo per me è stato ossigeno

l’ossigeno di una seconda famiglia

l’ossigeno raccolto nelle gambe per cominciare

il primo passo per il mondo che poi è stato

il viaggio del mio vivere che ho viaggiato.


Viene in mente che casa sua erano le lingue del mondo

mio fratello in vita, mio fratello in scelta

erano i suoni nel mondo, l’andare al mondo

e che casa mia era la mia famiglia, era Roma

era il buio di ragazzo di mio padre

viene in mente che casa sua era un altro modo di donna

e io ne ero tramortito, affascinato

incuriosito ma anche spaventato

perché mi ero accorto di come la madre del mio fratello in scelta

potesse un esempio, portasse un contagio

al modo di essere donna di casa mia

portasse una peste di rivolgimenti

che ora so sarebbero stati un bene

ma che allora, bambino di volontà assoluta di dolore

non potevo desiderare né immaginare

perché casa mia mi era nel sangue

come il modo di essere donna e madre di mia madre

e cambiarlo sarebbe stata una trasfusione

un’operazione a casa aperta, a cuore aperto

la cui riuscita, necessaria ma imprevedibile

mi portava a preferire lo stato delle cose di casa

lo stato di madre e lo stato di casa

lo stato di casa di mia madre, lo stato di modo di padre in casa

a preferire così com’erano le cose, così com’era la casa

così com’era il modo di mia madre di essere donna

il modo di mia madre di essere casa così e basta.


E così andò come speravo andasse

a nove e anche a quattordici anni

il contagio non avvenne, i modi restarono i modi di sempre

la madre e il mio amico fratello in vita

si trasferirono a Parigi, si trasferirono per sempre

e ora penso che quella fu, forse, l’unica possibilità

di sapersi altra donna e altra madre di mia madre

e ho molta pena di me

di come sperassi mi restasse madre mia madre

e anche se la possibilità è un calcio in culo

che il passato dà alle spalle del presente

io ringrazio la madre del mio fratello in scelta

per quello schiaffo e per quello

che a mio padre ha tolto dalle mani

e per quel suo modo di essersi madre e donna

per quel suo essermi altra madre e altra donna

e per quel che ha provato con mia madre nell’essersi

stata e fatta madre come donna e come madre.



XXXV


Ai miei diciassette anni

quando mio padre aveva smesso quasi del tutto

di essere solo un ragazzo

ci trovammo senza casa più

e ci unimmo ad altre famiglie senza casa più

per andare ad occupare le case che non avevamo più

ed erano uffici dismessi e scuole abbandonate

che diventavano casa per noi, casa con noi

nel frattempo dalla presa allo sgombero

nel frattempo da una presa di nuovo ad un altro sgombero.


Ai miei diciassette e poi ai miei diciotto anni

abbiamo dormito così: per terra

due sacchi a pelo a testa e vestiti per intero

con felpe e giacconi in inverno, come fra i ghiacci

e alla porcoddio, mezzi nudi

e in lotta con le zanzare in estate, come in campeggio

abitando stanzoni enormi come fossero casa

abitando sgomberi notturni come fossero casa

abitando abbandoni come fossero casa

abitando la città come fosse casa

abitando la casa che c’è ogni volta

si dorma un sonno fatto come in un addome di casa.


E se sei in tanti ad avere una casa come fosse casa

in tanti diventi allora un problema

lo diventi per la città, lo diventi per la regione

lo diventi addirittura alla nazione

quando disturbi la serenità dei palazzi

quando mandi mistero alla notte dei negozi

se qualcuno ti dice che sei un problema

se qualcun altro che ha letto qualcosa

dice questione sociale parlando di te

se sei in tanti ti fa comodo

li pigli per il culo, fai che sei povero

sei un problema, una questione sociale

e se diventi un povero ti fai dare qualcosa

ma devi essere che sei povero, altrimenti un cazzo

ti danno qualcosa se fai che sei povero

come vogliono che tu sia e sappia

se fai che sei una questione sociale

e se sei da solo o se sei in tanti

a te importa soltanto di avere sopra la testa

qualcosa che ti tenga a riparo

e intorno a questo qualcosa almeno tre pareti

che ti tengano caldo l’inverno

e fresco d’estate, a te importa questo

non di essere una questione, una loro questione

le questioni te le fai tu, le fai tu

ma se ti ci fanno diventare, allora impari

che diventandoci ti arriva qualcosa

magari un contenitore, forse un residence

comunque qualcosa, che era poi

più o meno quello che volevi tu:

li pigli per il culo, diventi problema

gli fai venire i problemi

e diventi sociale dal momento in cui

si chiedono come e cosa dover fare

diventi questione nel momento in cui

il tuo dossier rimbalza sulle scrivanie delle questure.


Diventi emergenza e qualcosa ti danno

qualcosa che è poco, ma meglio del niente

meglio dello sgombero alle tre di notte

meglio di un ponte, di due sacchi a pelo

meglio di uno stanzone tundra a dicembre.


Quando la mia famiglia divenne un’emergenza abitativa

mio padre stava perdendo il ragazzo che era stato

forse perché diventando quello che sembri povero

quello che ti danno qualcosa solo se

prima te lo prendi e poi fai che sei povero

se prima te lo tolgono e poi fanno che ti danno

magari un po’ di merda profumata

ma che è meglio della merda che puzza di merda.

Ai miei diciannove anni

quando mia sorella aveva già lasciato la scuola

e iniziato da un anno a lavorare in un bar

quando mia madre le pulizie e mio padre i traslochi

arrivò la merda profumata, quella concessa:

un ex asilo a Serpentara senza finestre

e con un soffitto come un Pollock di sangui

disegnato dal tossico che ci aveva abitato prima.


Ora non voglio farla troppo lunga

ma dopo un paio di anni di quel profumo lì

un giorno, mentre eravamo tutti a cena

entrò la notizia in forma di signora

che nella mattinata un tizio dell’occupazione

aveva sputato alla schiena di mia madre.

Forse la notizia, in forma di signora

neppure finì di entrare

neppure finì di dirsi

che io ero già in piedi

già verso la porta di casa

già verso la porta di casa del tizio

già dentro la casa del tizio

già dentro la faccia del tizio.


Ora non voglio farla troppo lunga

ma voglio dire di quando mio padre

entrò anche lui nella casa del tizio

di quando mi trovò seduto sulla pancia del tizio

con i pugni a mestolare la minestra somatica del tizio

di quando vide la moglie del tizio prendermi la testa a scopate

di quando le ruppe il polso con la mazza da baseball

che aveva usato per spaccare le finestre che il tizio

aveva nella sua casa di come gli fosse casa

mentre io ero già dentro la faccia del tizio

a venti secondi dietro di me

e questo ho da dire:

che dopo aver rotto quel polso

mio padre mi sollevò dalla pancia del tizio

e mi disse con lo sguardo che avrebbe avuto Platone

ora basta. Mi sollevò

e con le sue scarpe antinfortunio

prima di andarsene via

con un calcio spaccò le costole del tizio.


Poi tornammo nella nostra casa di come fosse casa

e continuammo a cenare.


Ora non voglio farla troppo lunga

ma dopo cena non si andò a dormire

perché vennero di gran lena

tutti i compagni del Coordinamento

tutti i “politici” del Coordinamento

vennero ad allestire un processo “politico”

ad un fatto che di politico non aveva nulla

se non che il tizio fosse un mezzo “politico” del Coordinamento.

Arrivarono i compagni, dissero a mio padre vieni con noi

io dissi vengo anch’io

arrivarono sicuri di essere compagni

sicuri di essere in tanti

e io dico impauriti e infatti erano in tanti

e durante il processo, l’unica cosa che seppero dire

era che eravamo fascisti urlando

e ce lo dissero tante volte urlando

che eravamo fascisti in continuazione urlando

come per convincersi di non avere paura urlando

rabbiosi come cagnolini, tutti, urlando

di fronte a me e mio padre

ad abbaiare un latrato di fascisti

trasformandosi ai miei occhi

in un branco di nuovi tanti nemici.


Ora non voglio farla troppo lunga

ma di quella sera, di quel processo

io serbo in cuore due cose e tutte di mio padre:

quella sera mio padre non disse parola

prese il latrare in silenzio

non muovendo la faccia, non muovendo parola

senza neppure una parola di difesa, di giustificazione

senza dire lo sputo del tizio alla schiena di mia madre

e poi anche, quella sera, lo sguardo di mio padre

né di rabbia né di sottomissione

mio padre aveva lo sguardo

non della preda

non del furioso

ma di Platone

lo sguardo di chi: voi blabla quanto vi pare

ma se osate toccare me o uno dei miei voi siete morti.


Queste due cose le serbo in me

le serbo per me da quella sera

le serbo come una casa di se mi fosse casa

dandomi vena all’idea che ho del Mondo

e le ho avute scritte sulla faccia di mio padre quella sera

scritte come si scrivono le gole quando le parole

aprono nel petto e nella bocca una voragine

come una frattura in cuore al futuro

che mi avrebbe atteso fino al giorno di oggi

per continuare nel domani della mia morte.


E queste sono le due cose che serbo

da sempre e serberò in me per sempre

le due cose che mi ha insegnato mio padre

scrivendole a voragine sulla faccia di quella sera:

primo: non ci si giustifica davanti ad un nemico

che non ci sono parole quando c’è un nemico

non c’è l’indietreggiare delle parole di fronte ad un nemico

ma che l’altezza del tuo sguardo

è il primo pugno che il nemico accusa

secondo: lascia al nemico il suo blabla

e il suo sguardo di blabla

tieni in faccia i muscoli e nello sguardo i nervi

di chi non blabla, ma di chi può e vuole

che il nemico sappia che il primo a farsi male sarà lui

anche se in venti, il primo a morire sarà lui.



XXXVI


Quando mio padre

solo un ragazzo

era mio padre

per me, ogni altro

ogni amore, ogni tutto.


Da quando mio padre

non più un ragazzo

è mio padre

per me, l’altro

l’amore, il tutto.


Non come lo è

chi in chi è

ma come nel come gesto

scambiato con l’altro

ma come luce invisibile

nello sfavillio in cui riluce

l’invisibile altro.




***


Iniziato il 13 aprile del 2017

Finito il 9 novembre del 2018


Scritto a mano su tanti taccuini e fogli sparsi.

Riscritto al telefono e al computer con Claudia D’Oriano

in tanti giorni e mesi sparsi.

Grazie, Claudia.


In cuore:

Charlene (stringimi)

Mamma (baciami)

Dorian Finel (ancora qui, fratello).


E grazie anche

a Mattia Pellegrini e a Nicola Valentino

che questo poema hanno voluto diventasse un libro.







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